Articoli di Almendra – Almendra’s articles

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Table of contents

-Solstizio d’Inverno 2021

-Una paginina sul qigong per eventuali allievi 18.12.2020

-Singleton’s Discourse

-Malattia & Medicina: le parole per ammalarsi e quelle per guarire

-Il Crepuscolo della Competizione

-La realtà così com’è 21.12.2012

– Malanni che Trovi

– Language Awareness I: Words

– Language  Awareness II

– Le Radici del Presepio

-Yhden naisen Minivallankumous italian tunneilla

SOLSTIZIO D’INVERNO 2021

Articolo esoterico per pochi eletti, chi sente di essere poco eletto lo scarichi qui 😉

UNA PAGININA SUL QIGONG

 Il termine qi gong (pronuncia ci kun) significa “padronanza del qi acquisita con l’esercizio”. E’ un termine moderno; anticamente le pratiche oggi chiamate qi gong erano conosciute come dao yin (guidare e condurre) oppure tu na (assorbire ed espellere). Il qi, in sanscrito prana, è l’energia intelligente che, secondo la filosofia taoista (e quella induista) permea e struttura il nostro corpo, così come permea e struttura l’universo e lo mantiene vivo. Come esseri autocoscienti, noi possiamo imparare a comprendere e in caso di necessità guidare questa energia per migliorarci sia dal punto di vista materiale che da quello psicologico e spirituale.

Nel corso dei millenni le scuole di qigong si sono moltiplicate. Esistono innumerevoli pratiche, statiche e dinamiche, molto diverse tra loro. Che cosa le accomuna? Nel qigong, di qualunque tipo e con qualunque orientamento filosofico (taoista, buddhista, confuciano…), devono essere attivati

mente “dove va la mente, là va il qi

energia attraverso il movimento, l’immaginazione creativa e il respiro

corpo attraverso la postura e il movimento

Il qigong ha tre aspetti complementari: meditativo, marziale, medico. 

Qualsiasi pratica, fatta con la mente altrove, non è qigong. Qualsiasi attività, svolta con attenzione e consapevolezza, può diventare qigong. Naturalmente praticando le tecniche tipiche del qigong si raggiunge lo stato meditativo più facilmente che lavando i piatti ;-). Lo “stato di qigong” è una condizione di gioiosa serenità, contemporaneamente vigile e rilassata.

Dal qigong marziale impariamo l’economia del movimento, il radicamento a terra, l’equilibrio, la forza elastica. Il famosissimo tai chi (tai ji quan) è un tipo di qigong marziale. Le arti marziali che nascono dal qigong sono dette arti marziali “interne” perché si fondano sul controllo del qi.

Con l’agopuntura, l’alimentazione, la farmacologia e il massaggio, il qigong è uno degli strumenti terapeutici della medicina cinese, il più delicato ma dagli effetti più duraturi e profondi, essendo un tipo di terapia che il paziente stesso deve mettere in opera, assumendosi la responsabilità della propria salute.

Secondo la medicina cinese, se il qi è abbondante e fluisce liberamente nei suoi canali (i famosi “meridiani”), ci sono salute e benessere. Nessun agente patogeno esterno può entrare nell’organismo se il qi è forte, ma se cattive abitudini, errori alimentari e posturali, squilibri emotivi protratti nel tempo hanno indebolito o alterato il flusso del qi, può insorgere la malattia. Curare una malattia significa ristabilire l’equilibrio psicofisico della persona.

La pratica del qigong in gruppo non ha la potenza di una terapia mirata e personalizzata (che deve essere prescritta da un medico), ma, rinforzando e mettendo in movimento il qi, ha senz’altro un effetto positivo sulla salute generale, sulla resistenza alle malattie, sull’umore, sulla capacità di concentrazione. Le sessioni di gruppo sono studiate per rispondere ai problemi caratteristici della nostra società: irrequietezza, confusione, ansia, contratture, ipertensione, insonnia, problemi osteoarticolari… Di solito si scelgono serie di esercizi riequilibranti che fanno bene a tutti e non possono far male a nessuno.

E’ fondamentale curare la postura e l’allungamento della colonna vertebrale, non attraverso lo stretching ma mediante il respiro e l’immaginazione creativa. Una buona postura sblocca il diaframma, allevia la compressione dei nervi spinali e permette al sangue e al qi di fluire più liberamente.

SINGLETON’S DISCOURSE click : singleton-tweaked

Thanks to Upasana for tweaking my poor English!

MALATTIA & MEDICINA: le parole per ammalarsi – e quelle per guarire  21.12.2016

disclaimer: Questo articolo espone diverse teorie mediche da un punto di vista linguistico e culturale e non contiene consigli terapeutici.

legenda: Le parole e frasi in neretto indicano un argomento importante, il corsivo serve a richiamare l’attenzione sull’uso di una parola o frase e sul contesto in cui viene usata. Anche le parole straniere sono in corsivo. In una citazione l’eventuale corsivo è originale.

Indice non interattivo dell’articolo (sotto, in pdf):

perché swami Neel Kamal?   1

URM (Ufficio Relazioni con le Malattie)   1

l’autoimmagine dell’ occidente   3

l’io fratturato   4

ancora autorità   5

la scienza irascibile   6

non conoscere te stesso   7

autostima   8

non cambiare   9

le cose   9

il fermo immagine   9

la paura   10

la malattia come metafora   11

medicine quasi alternative   15

l’io concentrico   16

autodominio???   18

la libertà   20

la medicina concentrica   20

e l’alimentazione?   22

per gli stessi gamberi passano numerose teorie   24

pace con la natura?   25

conclusioni   30

bibliografia   32

per leggere l’articolo clicca qui –> malattia-e-medicina2016

IL CREPUSCOLO DELLA COMPETIZIONE 21.9.2013

Riassunto commentato di un articolo di Martin Nowak e due di Marilynn Brewer (roba che non troverete in italiano nemmeno a pagarla un euro a virgola), a cura della sottoscritta.

L’umanità ama più i dogmi che la scienza. I dogmi ci danno la beata certezza di non poter cambiare le cose, e di conseguenza ci esonerano dall’assumerci responsabilità. La scienza non ammette dogmi, ma solo teorie. Una teoria scientifica non è altro che una spiegazione di certi fatti osservabili, sostenuta da un buon numero di prove che un buon numero di esperti trova convincenti. Fino a prova contraria. In teoria qualsiasi teoria può venir sovvertita in qualsiasi momento, in pratica la scienza è diventata una religione monoteista e ha trasformato le sue teorie preferite in dogmi che resistono anche all’evidenza.

Quando una teoria diventa dogma vuol dire che ci sono forti motivazioni ideologiche e ancor più forti interessi economici e politici a sostenerla. Per qualche motivo è preferibile che la massa creda a certe “verità” che mantengono le cose come stanno. La teoria dell’evoluzione attraverso la selezione naturale del più idoneo è una teoria scientifica, un tempo rivoluzionaria e ora dominante, che fino ad oggi non si è scontrata con forti prove contrarie. Questa teoria ha un corollario poco simpatico: la competizione spietata fra individui o gruppi per le risorse e lo spazio vitale.

Le teorie, come tutti i prodotti dell’umana conoscenza, non nascono fuori del tempo e della società, sono figlie della loro epoca. All’alba dell’era industriale Darwin “scoprì” che il mondo era governato da quella che secondo lui era la legge della giungla, ma che più probabilmente era la legge del capitalismo industriale proiettata sulla giungla. La natura, agli occhi di Darwin, era spietata come i padroni delle ferriere.

Questa visione della natura ha dominato la nostra cultura per un secolo e mezzo. Cosa ne sappiamo noi della natura? Noi vediamo e sentiamo quello che il nostro sistema nervoso riesce a percepire, anzi, nemmeno quello. Ci sono sempre troppi stimoli e quindi riusciamo a prestare attenzione solo a quelli che la cultura in cui viviamo ci ha insegnato a ritenere importanti; poi li raggruppiamo e interpretiamo come abbiamo imparato a fare. La dicotomia tra natura e cultura, che ha fatto riflettere fior di sedicenti filosofi, non esiste: natura è quello che di volta in volta una cultura definisce come natura, come naturale e quindi ineluttabile.

La competizione come legge naturale ha fatto molta strada, in epoca postmoderna ha generato la competitività e l’homo competitivus, un primate burocratico malato di alienazione, indifferenza, sadismo, intolleranza, burn out, depressione, cancro, diabete e disturbi cardiovascolari a scelta. La massa rassegnata continua a credere che il turpe egoismo sia l’essenza della natura in generale e della natura umana in particolare e l’homo competitivus prospera – per modo di dire.

Quando ad agosto del 2010 la rivista scientifica “Nature” pubblicò l’articolo “The Evolution of Eusociality” di Martin A. Nowak (professore di biologia e matematica all’università di Harvard), Corina E. Tarnita (matematica) ed Edward O. Wilson (sociobiologo), nel santuario della competizione scoppiò un putiferio: i tre scienziati avevano buttato alle ortiche la teoria di W.D. Hamilton sull’idoneità inclusiva (inclusive fitness). Questa teoria, rislanete al 1964, spiegava l’esistenza di fenomeni quali altruismo e cooperazione, che avevano dato filo da torcere anche a Darwin, come sviluppo di un caso particolare dell’istinto di sacrificarsi per salvare la propria progenie. Questa specie di carità pelosa (corro un rischio per salvarti affinché tu garantisca la sopravvivenza del mio patrimonio genetico) veniva estesa ogni tanto a fratelli e cugini, portatori anch’essi, almeno in parte, degli stessi geni del peloso caritatevole. All’epoca di Darwin la biologia molecolare ancora non c’era e il DNA con i suoi geni non era stato scoperto, ma nel secolo scorso molti scienziati descrivevano il comportamento dei nostri antenati ominidi come se quegli scimmioni pelosi fossero stati perfettamente consapevoli del loro dovere di salvare i geni. Oppure come se i geni stessi avessero caratteristiche umane, prima fra tutte l’egoismo. Lo dice il titolo di un libro famoso,“The Selfish Gene” (il Gene Egoista, 1976),  il cui autore, Richard Dawkins, non è mai stato accusato di aver antropomorfizzato delle ignare molecole. I geni sarebbero stati capaci di valutare i legami di parentela tra i loro portatori e di decidere se valesse la pena correre un rischio per salvare un cugino di secondo grado. Oltre che egoisti, i geni dovevano essere anche molto intelligenti! Il mito dell’onniscienza e onnipotenza dei geni sta lentamente tramontando, ma questa è un’altra storia.

La pubblicazione dell’articolo di Nowak, Tarnita e Wilson mandò i seguaci di Hamilton su tutte le furie, e sui tre rivoluzionari si rovesciò un’incredibile, poco scientifica, pioggia di insulti. Incuranti delle critiche, nel 2011 Martin Nowak e Roger Highfield hanno pubblicato “SuperCooperators: Altruism, Evolution, and Why We Need Each Other to Succeed”. (I supercooperatori: altruismo, evoluzione e perché abbiamo bisogno gli uni degli altri per riuscire, Free Press).

Secondo Nowak & soci l’altruismo e la capacità di collaborare non hanno bisogno di essere spiegati con una teoria a parte perché si spiegano benissimo nel quadro generale della teoria della selezione naturale, e non sono un’eccezione alla regola, bensì uno dei motori principali dell’evoluzione. Senza cooperazione non esisterebbero forme di vita complesse.

Gli organismi pluricellulari sono nati dall’aggregazione di molti organismi unicellulari che hanno rinunciato alla libertà di girovagare e di mutare al volo i loro geni in risposta agli stimoli ambientali. Far parte di un sistema organizzato offriva maggior sicurezza, pur richiedendo dei sacrifici. Le cellule di un organismo si coordinano per controllare la moltiplicazione, a volte si “suicidano” (apoptosi) per evitare di produrre un cancro. Le cellule del cancro sono proprio quelle che hanno perso la capacità di sacrificarsi al momento giusto per il bene comune. Un organismo è una società di cellule, un esempio direi epico di collaborazione, e poi ci sono le società di organismi, come sciami e branchi, e le società di società: gli ecosistemi, in cui milioni di specie collaborano per rendere possibile la vita. Senza ecosistemi la vita sarebbe scomparsa velocemente nel caos della guerra di tutti contro tutti.  Specie diverse a volte competono tra loro per il “posto al sole” e a volte collaborano specializzandosi, mentre i membri della stessa specie collaborano più spesso che no. Formiche, api e termiti operaie sacrificano la propria capacità riproduttiva per accudire la prole della regina, e collettivamente arrivano a realizzare opere, come città sotterranee perfettamente organizzate, ventilate, coibentate ed economicamente indipendenti, di cui nessuna formica, ape o termite sarebbe capace da sola. Le leonesse si aiutano nella cura e nell’allattamento dei cuccioli, i pipistrelli vampiri, che formano gruppi stabili, rigurgitano una parte del cibo per nutrire i loro simili che non hanno avuto fortuna nella caccia, spesso ricambiandosi il favore. Fra i primati, che vivono in bande e hanno buona memoria, gli individui che si sono dimostrati più generosi e disponibili vengono aiutati più volentieri da tutti, anche da quelli che non hanno mai ricevuto aiuto. Sembrerebbe che anche gli animali si facciano una “reputazione”. La reputazione diviene importantissima nelle società umane, grazie al linguaggio elaborato e all’uso di nomi. Vivendo in un gruppo, dice Nowak, si deve essere abbastanza intelligenti da comunicare le proprie intenzioni, intuire le intenzioni degli altri e ricordarle. La capacità linguistica si è sviluppata nell’interazione e ha favorito lo sviluppo del cervello, che a sua volta ha favorito lo sviluppo della lingua. Proprio il fatto di disporre di un linguaggio complesso fa degli esseri umani dei “supercooperatori”, che hanno costruito intere civiltà lavorando insieme e le hanno distrutte entrando in competizione.

La selezione naturale ci ha spinti verso la cooperazione: rispetto a molti altri animali il primate homo, privo di artigli, pelliccia e zanne, è debole e indifeso. Nessun individuo umano avrebbe potuto sopravvivere da solo; l’umanità è sopravvissuta grazie alla sue capacità di vivere in gruppo e solo collaborando riuscirà a sopravvivere in futuro. La collaborazione, quindi, non esclude la competizione, sono due forze che contribuiscono alla selezione naturale. La selezione di gruppo è un concetto espresso già da Darwin nella sua opera “Le Origini dell’Uomo” del 1871:  “Una tribù con molti membri disposti ad aiutarsi e a sacrificarsi per il bene comune sarebbe avvantaggiata rispetto alla maggior parte delle altre tribù, e anche questa sarebbe selezione naturale”.Darwin presupponeva che i vari gruppi fossero in costante conflitto tra di loro, ma non è detto che sia sempre così, come vedremo tra breve.

La stranezza delle teorie dell’idoneità inclusiva (Hamilton) e della supercooperazione (Nowak) è che si basano su calcoli matematici. Anticamente (anni ’50 e ‘60) negli Stati Uniti si facevano esperimenti ai cui partecipanti veniva proposto in forma di “gioco”un dilemma morale che li costringeva a scegliere se anteporre o meno i propri interessi personali al bene comune. I “giocatori” immaginavano di essere i personaggi del dilemma e decidevano come si sarebbero comportati nella situazione descritta. Nell’impossibilità di coinvolgere migliaia di persone nel gioco o continuare a giocare per anni, oggigiorno, sempre negli Stati Uniti, si ricorre al computer per simulare le possibili scelte di varie generazioni successive di giocatori. Ogni nuova generazione è formata dai “figli” dei “sopravvissuti” della generazione precedente, e si suppone che abbiano ereditato dai “genitori” un certo tipo di comportamento.

Sviluppando le conseguenze delle varie combinazioni possibili e osservando quale tipo di risposta prevale ad ogni “giro”, si osserva che si alternano periodi in cui prevale una risposta egoistica a periodi in cui prevale l’altruismo. Questi cicli sembrano riflettere la storia reale dell’umanità, con i suoi periodi oscuri di guerra, paura e sfiducia generale e i suoi periodi più luminosi di ottimismo e progresso. Purtroppo una società pacifica e tollerante, in cui prevalga l’altruismo, è facile preda di quei pochi egoisti che fanno i furbi, ma, secondo Nowak, il vantaggio degli egoisti è a breve termine. La vita intelligente ha un potere distruttivo e perciò è fragile. Forse nell’universo si sono sviluppate altre specie intelligenti oltre a noi, ma si sono autodistrutte perché non avevano la capacità di collaborare.

Un dilemma famoso è la “tragedia dei beni comuni” descritta dell’ecologo Garrett Hardin nel 1968: alcuni allevatori hanno dei pascoli in comune e ciascuno lascia che i propri animali bruchino più di quanto pattuito, pur sapendo che stanno lentamente distruggendo una risorsa necessaria a tutti. Il risultato finale di questo comportamento avido e imprevidente non può essere altro che il collasso. Negli esperimenti reali con questo tipo di dilemma, le risposte sono più altruistiche quando i giocatori ricevono, da una fonte che ritengono attendibile, informazioni chiare sui rischi della scelta egoistica. Un altro incentivo ad un comportamento generoso è giocare a carte scoperte, “facendo bella figura”. Sembra poco lodevole, ma in fondo se pensiamo di far bella figura comportandoci generosamente, vuol dire che attribuiamo alla generosità un valore positivo. Quindi, Nowak conclude, se i nostri politici vogliono evitare la catastrofe, devono incoraggiare comportamenti altruistici diffondendo informazioni precise e premiando le buone scelte.

Ora lasciamo la matematica del comportamento possibile, che essendo pura matematica sembrerà molto convincente ai più religiosi cultori della pura scienza ma che io trovo poco soddisfacente perché astrae dal contesto della vita reale, e passiamo a una scienza più articolata: la psicologia sociale. Qui di seguito vi condenso a modo mio due articoli della professoressa Marilynn Brewer dell’università statale dell’Ohio (bibliografia in fondo).

L’umanità si è evoluta vivendo in gruppi, come testimoniano i ritrovamenti archeologici; il gruppo era una specie di cuscinetto tra l’individuo e l’ambiente. Un esempio concreto di questa funzione-cuscinetto: Essere onnivori ha permesso agli umani di adattarsi ad ambienti naturali diversi e ha reso necessario condividere informazioni su cosa fosse commestibile e cosa no: l’”istinto” non sarebbe bastato ad orientarsi fra le migliaia di cibi possibili, e se ogni individuo avesse dovuto reimparare tutto da capo per prova ed errore avrebbe perso troppo tempo, avvelenandosi magari con qualche bacca o fungo.

L’apprendimento, nell’evoluzione umana, è diventato più importante dell’istinto, e la cooperazione più importante della forza. Che si trattasse di andare per funghi, organizzare battute di caccia o costruire palafitte, gli umani dovevano lavorare insieme.

Non era necessario che l’individuo si adattasse direttamente all’ambiente naturale: l’ambiente della selezione era il gruppo. I più idonei a sopravvivere in questo ambiente erano i più socievoli, i più disposti a collaborare, a condividere informazioni e ad adeguarsi alle norme della vita in comune.

Quindi il bagaglio genetico, la struttura sociale e la cultura sono interdipendenti e si sono evoluti insieme. La cultura fa parte della natura dell’essere umano. Cultura e struttura sociale possono anche influenzare la biologia, come nel caso in cui le donne di un villaggio sincronizzano (inconsciamente, s’intende!) le loro mestruazioni in modo da rimanere incinte e partorire più o meno contemporaneamente per potersi dedicare tutte insieme alla cura dei piccoli. Nel contesto della vita associata occuparsi dei ”figli degli altri” e proteggerli conviene a tutti. Non c’è bisogno di invocare casi particolari dell’ideoneità inclusiva di Hamilton per spiegare il fenomeno: la sopravvivenza del maggior numero possibile di bambini è necessaria a garantire la continuità del gruppo, senza il quale i ”figli propri” non potrebbero sopravvivere.

Secondo la professoressa Brewer tutti gli elementi costitutivi della personalità umana: cognizione, emozione, affettività e motivazione, sono stati forgiati dalle necessità dell’interdipendenza. Le motivazioni sociali come il bisogno di sentirsi accettati e la paura di rimanere soli sono gli elementi più profondi e radicati del comportamento umano.

La motivazione sociale include e spiega anche il nostro atteggiamento verso la conoscenza: quello che sappiamo del mondo non è tanto il frutto delle nostre osservazioni individuali quanto una rappresentazione collettiva, che gli uomini delle caverne condividevano comunicando dal vivo e noi attraverso i media. Quello che abbiamo sentito dire da fonti che riteniamo affidabili ha per noi lo stesso valore di ciò che abbiamo visto con i nostri occhi. La nostra fonte di significato è la conoscenza condivisa, mentre certezza è praticamente sinonimo di consenso.

I famosi stereotipi etnici e sociali non nascono necessariamente da una scorciatoia che la mente umana prende per non fare la fatica di rimettere in discussione le categorie in cui si è comodamente adagiata, ma dalla necessità di mantenere unito il gruppo di appartenenza differenziandolo dagli altri gruppi. Gli stereotipi persistono al livello sociale anche quando vengono rifiutati al livello individuale perché la lealtà verso il gruppo è molto forte quando il senso di identità dell’individuo è legato alla sua appartenenza a questo gruppo. Una forte identificazione con un gruppo non implica automaticamente odio e discriminazione nei confronti degli altri gruppi, implica soltanto che, pur di distinguere noialtri da quegli altri là, si cerca di evidenziare le differenze tra un gruppo e l’altro – anche a costo di inventarle.

Naturalmente non sempre gli interessi del gruppo coincidono con quelli individuali: come tutti sappiamo, ogni tanto ci troviamo in situazioni di conflitto tra quello che vorremmo fare noi, quello che vuole da noi l’azienda, quello che ci chiede la famiglia, quello che propongono gli amici e quello che dovremmo fare come buoni cittadini. Questi conflitti possono assumere dimensioni tragiche, come nel caso di Giulietta e Romeo, o rimanere al livello di commedia, ma in ogni caso la nostra vita sociale è costellata di negoziati, battibecchi e compromessi per mantenere allo stesso tempo l’integrità dell’identità individuale, le relazioni sociali e l’ interesse collettivo.

Quando i sistemi di motivazione individuale, familiare e collettivo si scontrano, si rivela l’ambivalenza della ”natura umana”: da una parte sentiamo il bisogno di aggregazione, cioè di sentirci parte di una collettività che ci sostiene, e dall’altra sentiamo il bisogno di distinguerci e realizzarci individualmente. Più viene soddisfatto uno dei due bisogni più viene frustrato l’altro, ma identificarsi con gruppi chiaramente distinti dagli altri gruppi soddisfa entrambi i bisogni. La nostra identità, cioè la nostra idea di chi siamo e del significato della nostra vita, può essere più o meno ancorata nell’identificazione con uno o diversi gruppi; più saldamente è ancorata, più vogliamo che il gruppo di cui ci sentiamo membri (che sia il fan club di un cantante, una parrocchia o un’associazione internazionale) si distingua da tutti gli altri, e quindi facciamo di tutto per essere riconosciuti come membri di quel gruppo per esempio indossando la maglietta del club, salutando gli altri membri con una stretta di mano segreta o usando un gergo.

Essere disponibili verso gli altri membri del proprio gruppo preferito è una forma di altruismo basata sulla fiducia, indispensabile in un sistema di cooperazione. Dagli studi della professoressa Brewer non risulta nessun tipo di correlazione tra la preferenza per il proprio gruppo e l’ostilità verso altri gruppi. L’ostilità o meno dipende da fattori ambientali come il tipo di società in cui i gruppi esistono: una società gerarchica e fortemente competitiva incoraggia l’ostilità, una società aperta in cui ogni individuo può sentirsi membro di molti gruppi allo stesso tempo incoraggia la tolleranza. Un esempio di appartenenza a gruppi che si intersecano: Giovanna si sente donna, socia del WWF, gattara, dipendente della pensione Gioiello, tesserata del sindacato dei camerieri cattolici, parrocchiana di Santa Maria Erborista, italiana, romana, trasteverina…

La flessibilità e variabilità tipica della natura umana ci danno la capacità di identificarci con gruppi concentrici sempre più vasti: dal villaggio all’umanità intera. Purtroppo il potere politico, per mantenere lo status quo, può scegliere, e spesso ha scelto, di fomentare l’ostilità fra gruppi etnici, culturali o religiosi, spacciando eventualmente l’ostilità per fenomeno naturale e quindi inevitabile.

Secondo Brewer negli esperimenti costruiti intorno ai dilemmi in cui la conservazione dei beni pubblici e delle risorse naturali entra in conflitto con l’interesse privato, la risposta è variabile: se non c’è un’identificazione simbolica con la società, la reazione tende ad essere egoistica: tutti cercano di approfittare dei beni pubblici, ma basta fornire un simbolo unificante (per esempio una bandiera, o qualsiasi cosa possa rendere concreta e visibile la collettività) per veder diminuire l’uso individuale delle risorse. Se poi il dilemma è preceduto da una breve discussione di gruppo, la scelta è sempre altruistica. La situazione, la cultura e scelte degli altri influenzano la scelta individuale, dimostrando che l’essere umano risponde immediatamente alla situazione sociale in cui si trova.

In conclusione, il comportamento umano non è guidato né da sfrenato egoismo né da altruismo suicida, ma in genere si trova a metà. La scelta a favore della collettività è altrettanto naturale di quella egoistica, la collaborazione è tanto naturale quanto la competizione. In presenza di valori comuni e scopi condivisi siamo capaci di collaborare al di sopra di tutte le divisioni.

Questo è quanto ci dice la nuova scienza. Concludo: se vogliamo cercare nell’osservazione della natura esempi di competizione, ne troveremo. Troveremo anche esempi di cooperazione, che finora abbiamo scelto di non vedere. Noi umani con il passar dei secoli scopriamo sempre nuovi aspetti della natura, che prima non vedevamo perché non eravamo ancora arrivati al livello corrispondente. La rivoluzione industriale ci ha rivelato l’aspetto meccanico e competitivo della natura. Va bene, ora però ne è passata di acqua sotto i ponti, la rivoluzione industriale sta culminando in una catastrofe planetaria, dalla grezza meccanica siamo passati all’elettronica, dalla fisica newtoniana a quella quantistica – è ora di scoprire nuovi aspetti della natura, che finora non avevamo visto – ovvero di proiettare sulla natura altri aspetti di noi stessi, che finora non avevamo visto. E soprattutto mettiamoci in testa, ragazzi, che non abbiamo più scuse. È inutile andarle a cercare nelle leggi naturali che di volta in volta inventiamo: noi umani siamo quello che decidiamo di essere.

Fonti:

Martin Nowak: The evolution of Cooperation; Scientific American, July 2012

Marilynn Brewer: The Psychology of Prejudice: Ingroup Love or Outgroup Hate? Journal of Social Issues Volume 55, Issue 3, pages 429–444, Fall 1999

Marilynn Brewer: Taking the Social Origins of Human Nature Seriously; Personality and social psychology review  vol 8 N.2, May 2004

LA REALTA’ COSI’ COM’E

Too many teachers and gurus have the truth in their pocket and are happy to impose their truths on you and make you well. If their truth kills you, it is your fault – of course.

Con voce suadente mormora la supplente: ”Abbiamo lavorato sul radicamento, ora i piedi sono radicati a terra, abbiamo radici profonde…” Piedi? Dopo mezz’ora di immobilità non so dove siano, e d’altra parte non li dovrei guardare: bisogna ”sentirli”. Purtroppo, essendo gelati, non li sento più. Ora dobbiamo spingere lentamente i palmi delle mani in avanti. Si ode una voce flautata che imita i toni dell’insegnante in capo: ”Con questo movimento andiamo avanti, verso il nostro futuro, verso ciò che ci nutre e ci fa bene…No, non così, spingi avanti il centro del palmo!” Comunque ci muoviamo o ci mettiamo, ci correggerà: ormai ci ha preso gusto. Quando avrò tutte le falangi a posto, le braccia alla giusta distanza dall’ombelico, le ginocchia ben semiflesse, il coccige verso terra e la cima della testa verso il cielo, potrò rilassarmi. Se mi rilasso, però, la mia bella postura andrà a ramengo e verrà sparata un’altra raffica di ”No!”

Alla fine si deve saltellare. Ballonzolare! Muovere le braccia come se sgrullassimo via tutti i pesi che ci appesantiscono. ”Ah, che libertà!” esclama giuliva la supplente. ”No! Non così, in fuori, muovi i polsi in fuori!” Una signora un po’ attempata non ce la fa più. ”Dai, dai! Fuori! via tutto! ” la esorta la supplente senza pietà. La signora non ha il coraggio di opporsi e ricomincia a ballonzolare. La ballonzolata si protrae più del solito, alla fine mi fanno male la testa e la milza. Lo dico, ma la supplente mi ignora. Secondo lei siamo rilassate e piene di energia.

Ogni tanto mi trovo davanti qualche guru, o, peggio ancora, un clone del guru, che ha la verità in tasca. Ce l’hanno addirittura certi insegnanti di scuola e corsi vari, che non insegnano per trasformare la loro piccola scienza in un bel dono utile e interessante, ma per far soffrire gli studenti. Guru e guaritori invece sanno cosa devi fare per ”stare bene” e ti convincono a farlo, anche se facendolo dovessi star male. Le loro verità ci investono tutti come uno stampino per biscotti investe l’amorfa pastafrolla. Maestri e guru, se non hanno sviluppato un’etica pari alla tecnica, quella fettolina di potere che hanno se la prendono tutta. Il potere di giudicare l’operato altrui e di correggerlo li nutre e li fa star bene, specie se sono frustrati nella vita privata –  ma fa star bene noi?

”Ora forse non te ne accorgi, ma la pratica darà i suoi frutti…” Intanto tu continui a frequentare e paghi, e più avanti vai più ti convinci che stai migliorando. Considerato il prezzo, non è possibile che tu abbia speso tutti quei soldi per niente, no? Se proprio non riesci ad autoconvincerti che tutto va per il meglio, sorge nel tuo cuore il salvagente di tutti i sedicenti guru, degli insegnanti incapaci e dei politici imbroglioni: il senso di insufficienza & colpa (I&C). ”Non sono brava, non m’impegno, non ho fede, è colpa mia”. Quanti speculano sul senso di I&C altrui? Forse lo nutrono addirittura, consciamente o inconsciamente, per poter meglio speculare? Il compito è facile: siamo stati nutriti di senso di I&C fin da neonati, lo abbiamo appreso a casa, in chiesa, a scuola. Ogni prepotente che fa la vittima ci commuove fino alle lacrime e ci tiene saldamente in pugno. Poverino, lui fa tanto per noi e noi non ci mettiamo abbastanza impegno!

A che scopo dovremmo metterci impegno? Per stare bene o per gratificare lui? A che scopo paghiamo 50, 60 se non 70 euro al mese? Per chi andiamo alle lezioni, che siano di yoga, tai ji, feldenkrais, qi gong, pilates, pranic healing e quant’altro? Se siamo partiti con l’idea di far del bene a noi stessi, di ”coccolarci” come vuole la retorica del fitness & wellness tanto in voga in quest’epoca di gattoni & volponi, spesso finiamo per coccolare nient’altro che il portafoglio & l’ego del guru. Il guru ci tiene alla perfezione della tecnica: è il suo personale stampino per biscotti e lui vuole vedere intorno a sé tanti biscotti tutti uguali, perfettti, sorridenti, guariti da ogni male grazie a lui. Ogni scuola ha il suo folklore di guarigioni miracolose: storie di singoli casi che si tramandano di bocca in bocca e, pur essendo statisticamente irrilevanti, danno al metodo un’aura di validità scientifica. Essere obbedito e lodato è il massimo della goduria per ogni cattivo maestro, in buona o cattiva fede. La tecnica che insegna, che la faccia passare per antichissima o ammetta che è postmoderna, non ha bisogno di adattamenti: sono i praticanti che si devono adattare alla tecnica. Funziona solo se è praticata bene? Dipende. Se si tratta di ginnastica, sì, se si tratta di energie sottili l’intenzione può essere più importante della perfezione, e così se la tecnica prodigiosa non funziona o è perché pratichi male o perché non ti concentri, non ci credi, non pratichi con cuore puro. La colpa è sempre tua. Se invece sei bravo e la tecnica funziona, il merito è del guru.

Per i buoni  maestri non ci sarebbero discepoli da inquadrare ma solo esseri umani, e le tecniche non sarebbero importanti di per sé: sarebbero strumenti fra cui cercare qualcosa di adatto e adattabile ai bisogni dei singoli individui. Uso il condizionale perché assai raramente ho incontrato di persona un(a) buon(a) maestro/a, che rispettasse davvero gli individui e non cercasse di sovrapporre la propria realtà a quella dello studente.

Ogni tanto mi trovo davanti qualche guru, o peggio ancora un clone del guru, che sa come stanno le cose: quando (grazie alle tecniche che ci vengono insegnate) impariamo ad aver fiducia nell’intuizione, quella che prescinde dall’informazione dei sensi, riusciamo a percepire la realtà così com’è, a mente ferma come un limpido specchio. Il guru di turno conosce la realtà così com’è, non si perde come facciamo noi nei labirinti dell’autoinganno e quindi può guidarci… Però tende a giudicarci.

Non sono più tanto ingenua come la prima volta che mi trovai davanti ad uno di questi volponi, ho imparato a percepire la situazione che mi circonda e attribuirle il significato che merita: le cose, quelle che noi normalmente vediamo (ad esempio la tecnica che impariamo), di per sé non hanno alcun significato; è il contesto in cui accadono che dà alle cose un senso. Ora la situazione è questa: un gruppo di donne sfigate e forse uno o due sfigati maschi, relativamente benestanti, raccolti intorno al/alla guru o a un suo discepolo fedele, cercano la panacea per i loro problemi psicofisici che non sono riusciti a risolvere con mezzi convenzionali. Avendo tanto cercato questa panacea, sono disposti a convincersi di averla trovata. La/il guru elargisce diagnosi e insegna tecniche e posture faticose e macchinose per rieducare il corpo alla spontaneità perduta. Secondo la retorica del wellness & fitness, infatti, abbiamo perso il contatto con la nostra natura e qualcuno deve aiutarci a ritrovarlo. La supplente crede nella potenza della tecnica stessa, che secondo lei funziona a prescindere da chi la insegna. Stranamente, però, ripete parola per parola tutto ciò che dice l’insegnante in capo. Come tanti altri, non si guarda intorno e non ha occhi per lo sfondo su cui si stagliano le cose. Nessuna tecnica e nessuna scienza esiste nel vuoto, a prescindere da chi la pratica, chi la insegna, come, dove e perché.

Mi sento un crostaceo. Riesco a  modificare un po’ la posizione del guscio per assumere una bella postura, ma dentro fastidio e tensione non fanno che crescere. Quel movimento, quella posizione, saranno ”naturali” per il guru, ma non per me. Come mi muoverei, se fossi libera di muovermi come il mio corpo vuole? Cosa vuole il mio corpo? Non lo so. Avrò disimparato l’ascolto del corpo da piccola, in questa società snaturata (come sempre si dice), e perciò non ho più accesso alle mie sensazioni. Come potrei averlo mentre qualcuno, che sembra conoscere le mie sensazioni meglio di me, mi dice come dovrei sentirmi? Ogni guru decide, secondo la propria personale cultura, cosa sia ”naturale” e proietta la sua immagine della natura sui discepoli sotto forma di ”realtà così com’è”. La soggettività del maestro si espande e diventa oggettiva d’autorità.

”Fai questo, questo e questo, attenzione a questo, questo e quest’altro, rilassati. Rilassare non vuol dire abbandonare! Non è il bacino che guida il movimento, ma le anche; il peso non cade sulle ginocchia ma direttamente sui piedi, non irrigidire, non spingere, non tirare, non pensare (sic!), non, non, non…” C’è poco da rilassarsi sotto questo bombardamento di messaggi a volte poco chiari, se non in contraddizione fra di loro. Ci vuole una laurea in pedagogia per capire che non si insegna con i ”no” e i ”non”? Ci vuole un dottorato in pedagogia per sapere che non si insegnano mai tutti i dettagli contemporaneamente? Dimenticavo il respiro ”naturale”, che dovremmo limitarci a osservare (mandandolo contemporaneamente in basso) mentre facciamo tutte le cose che ci sono state spiegate, ma senza pensarle. Cercando di non pensare mi viene un gran mal di testa. Meno male che nessuno se ne accorge.

Il mio primo incontro con un guru onnisciente risale a vent’anni fa, in un famigerato ”campo di concentramento” (così lo chiamano i sopravvissuti) nella Svezia meridionale. È un ashram dove si pratica lo ”yoga scandinavo” (etica zero). Lì si trattiene il respiro fino a scoppiare, ci si contorce fino allo spasimo cercando di rilassarsi e si finge di meditare per ore, pur di non sentire gli urli del guru capo, che prende ogni errore, e anche il timore dei suoi urli, come un insulto alla sua persona. Rimproveri infondati, contorcimenti, dolori e dura disciplina ”ci facevano bene” a detta del guru e dei suoi devotissimi cloni.

Alla fine di un lungo ciclo mi ritrovo da capo: qualcuno sa cosa dovrei fare per sentirmi bene e cerca, anche se con metodi meno rozzi che lassù tra i grezzi vichinghi, di impormelo. Non funziona, e se non funziona la colpa è mia. Colpa, errori, sbagli… In una cosa solamente la musica è cambiata: ormai potete darmi tutte le colpe che volete, guru volponi, io non le prendo. Le lascio cadere a terra e spero vi schiaccino un piede.

Quando viene tirata in ballo ”la realtà così com’è” non so se ridere o piangere. È difficile spiegarlo, e nemmeno vorrei imporre una verità ultima a nessuno, ma ”la realtà così com’è” di cui si parla è solo un costrutto verbale, uno stampino per biscotti che vale tanto poco quanto gli altri. Se questa realtà ci fosse, dovrebbe essere oltre le parole e i pensieri, e nessuno ha mai raggiunto quello stato solo perché qualcuno gli ha detto ”non pensare”. Sono esperienze che ognuno deve fare per sé, nessuno può farle al posto di un altro, descrivergliele e tantomeno farlo sentire in colpa se percepisce solo realtà soggettive. Come se si potesse percepire qualcosa di non soggettivo! Cos’è la realtà? Quanto siamo veloci a rispondere! Ma qualsiasi risposta si dia, è uno stampino per biscotti. E se volete un mistico paradosso su cui farvi venire un sano mal di testa, eccovene uno. Attenzione: Nessuno percepisce la realtà, ma tutti la creano.

Bella, eh? Pensateci, ma senza pensare.

Oh guru e maestri, spesso privi di senso dell’umorismo, a volte invece dotati di quel mediocre senso dell’umorismo che permette solo di prendere in giro gli altri, perché non vi guardate allo specchio prima di sparare diagnosi, oracoli, verità ultime, intuizioni supreme? Mettete lo sparaoracoli in pausa e guardate. Siete belli? Sicuramente, ma siete anche figli della vostra epoca e le vostre verità ultime sono figlie dello Zeitgeist almeno tanto quanto lo sono dell’ipotetica ”realtà così com’è”. Se riusciste ad azzittirvi un istante e a ridere delle vostre definizioni prima di lasciarvene trascinare, sareste più saggi.

Io mi domando, e domando a tutti quelli che insegnano qualsiasi cosa: Potremmo insegnare quello che insegniamo senza imporci ai nostri studenti come rigidi stampini all’amorfa pastafrolla? Non abbiamo davanti pastafrolla ma persone, individui a tre(mila) dimensioni che hanno da insegnarci almeno tanto quanto sono venuti ad imparare da noi. Possiamo non essere rigidi, infallibili stampini ma flessibili collaboratori? Possiamo essere noi ad adattarci, insieme ai nostri metodi, agli studenti, invece di pretendere che siano loro ad adattarsi a noi? Possiamo limitarci a facilitare il processo di apprendimento che avviene, se avviene, secondo le capacità e i bisogni dello studente? Possiamo permetterci il lusso di ammettere che c’è qualcosa che non sappiamo e andarcelo a cercare, o ammettere addirittura che potremmo sbagliarci? Chi recita la parte del guru non può permetterselo, e allora scendiamo tutti dal piedistallo. Anzi, scendetene voi guaritori, psicoterapeuti, massaggiatori insegnanti di yoga, qi gong e altre discipline in cui si insegna alla gente come vivere. Io, modesta insegnante di italiano lingua straniera, non ho piedistalli su cui salire. Ma quando ci salite voialtri sapientoni vi sgamo subito!

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LE RADICI DEL PRESEPIO

Non accadde a Greccio

Il presepio come lo conosciamo oggi non risale a san Francesco; le sue origini sono molto più antiche. La commemorazione di Greccio, nella notte di Natale del 1223, non fu una ricostruzione fedele della nascita di Gesù: c’erano un bue, un asino e una mangiatoia, ma non c’erano né Maria né Giuseppe. Molti frati e molti ammiratori laici di Francesco vennero dai villaggi del reatino ad ascoltare la messa, che fu celebrata sulla mangiatoia con gran luminaria di ceri e candele. Non è chiaro se il bambino fosse rappresentato da un bambolotto o da un bambino vero. Francesco fece la sua immancabile predica sull’umiltà e sulla povertà, due virtù su cui insisteva sempre. Aveva i suoi motivi: la chiesa del 1200 era ricchissima e corrotta, e Francesco cercava di riformarla, ma dall’interno. Il poverello di Assisi non finì sul rogo perché non criticò mai apertamente la chiesa. La sua critica era indiretta: invece di criticare l’avidità, lodava la povertà. Si convinse, e convinse anche gli altri, che Gesù fosse povero. E’ un malinteso. Se Gesù, da adulto, decise di andarsene di casa e vivere come un hippy, fu una scelta sua. La famiglia di Gesù era “della casa di Davide”, e quindi di stirpe regale. Giuseppe aveva una casa a Nazareth, faceva il falegname e da nessuna parte nei vangeli si dice che fosse povero. Quella fatidica notte dell’anno zero, Maria e Giuseppe si dovettero rifugiare in una stalla perché erano in viaggio a causa del censimento, gli ostelli di Betlemme erano tutti pieni e Maria stava per partorire. Alcuni pastori di quelle parti aiutarono i due viaggiatori, ed ebbero l’onore di diventare personaggi del presepio.

La commemorazione di Greccio  non aveva altro scopo che mettere in evidenza l’umiltà e la povertà di Gesù, ed è solo una delle tradizioni che confluiscono nel presepe come lo conosciamo oggi. Le altre tradizioni sono legate al culto dei Lari e al culto di Mitra nell’antica Roma, alle statuine funerarie e alle rappresentazioni tombali che si trovano nelle sepolture di molti popoli antichi, ai riti del solstizio d’inverno e all’interesse per i modellini, diffuso in tutti i tempi e in tutti i paesi del mondo. Il presepe è una rappresentazione simbolica che si può leggere a molti livelli.

I Lari

I Lari nella mitologia romana erano spiriti protettori che vegliavano sul buon andamento delle attività umane. I più venerati erano i Lares familiares, che rappresentavano gli antenati e proteggevano la famiglia. Le statuine di terracotta (sigillum al plurale sigilla) che rappresentavano i lari venivano collocate in apposite nicchie a forma di capanna. Queste nicchie si trovavano sia nelle case che sulle pareti degli edifici, ad esempio all’incrocio fra due strade, dove oggi si trova spesso una nicchia con una statuetta o un’immagine della Madonna o di un santo. Per onorare o pregare i Lari si accendeva una fiammella davanti alla loro nicchia, proprio come oggi si accende una candela davanti alle immagini dei santi.

Il 20 dicembre, durante i Saturnali, la grande festa di metà inverno da cui ha origine il nostro Carnevale, si svolgeva una celebrazione minore, detta Sigillaria (festa dei sigilla). I parenti si scambiavano in dono i sigilla che rappresentavano i familiari defunti durante l’anno. I bambini dovevano lucidare le statuette e disporle come preferivano in un piccolo recinto che rappresentava un ambiente campestre in miniatura.

La sera della vigilia della festa, la famiglia si riuniva davanti al recinto dei Lari per invocare la loro protezione, lasciando offerte di cibo e vino. Il mattino seguente, al posto delle offerte, i bambini trovavano giocattoli e dolci, regali portati durante la notte non da un grasso Babbo Natale americano ma dai loro nonni e bisnonni defunti.

Babbo Natale non è che una versione consumista (è vestito di rosso perché il rosso è il colore della Coca Cola) di san Nicola (sankt Nikolaus – santa Claus), uno dei santi più venerati in Italia meridionale, che sostituisce i Lari nel compito di portare doni ai bambini la notte di Natale.  In Sicilia In Trentino, in Friuli Venezia Giulia, in Emilia, in Veneto, in alcune zone della Lombardia è santa Lucia a portare i doni. Che ci crediate o no, la bionda Lucia svedese con la testa cinta di candele, che il 13 dicembre arriva cantando una versione nordico-deprimente di “Sul Mare Luccica”, è proprio la santa patrona di Siracusa. (Come sia arrivata “Sul Mare Luccica” in Svezia è un mistero, ma i bravi svedesi, non sapendo che Santa Lucia è una zona di Napoli, hanno pensato che la canzone parlasse della loro Lüsiia e l’hanno adottata.) E in tutta l’Italia sopravvive la tradizione della Befana. La saggia vecchina che volando sulla sua scopa porta doni (ma solo a chi è stato buono!) nella notte del 6 gennaio, rappresenta la continuità nella transizione dall’anno vecchio a quello nuovo ed è un simbolo della Grande Madre, che è anche la regina dell’oltretomba e sa tutto di ognuno di noi.

Il solstizio

Non sappiamo in che giorno sia nato Gesù. La sua nascita viene celebrata il 25 dicembre perché in quei giorni i popoli antichi celebravano il solstizio d’inverno: la morte e la rinascita del sole. La parola Natale viene dal nome latino della festa: dies natalis Solis invicti, cioè il giorno della (ri)nascita del sole invincibile.

In Egitto, nelle leggende riguardanti il sole, si diceva che il dio dovesse attraversare ogni notte un passaggio sotterraneo e a volte lottare contro i mostri di quel mondo buio, per uscire ogni mattina vincitore dall’altra parte del cunicolo. Il sole veniva raffigurato simbolicamente da uno scarabeo, che spinge la pallottola di terra in cui ha messo le sue uova. La pallottola diventa nell’arte egiziana un rubino.  Nei miti antichi difficilmente si nasce senza una madre, e quindi un ruolo importantissimo è rivestito dalla madre del sole, la volta celeste, che in Egitto è la dea primordiale Nut, oppure Hathor, rappresentata da una vacca che porta il sole fra le corna, oppure, quando il sole venne assimilato a Horus, la dea Iside. Le statuette di Iside con la luna sulla testa e il bimbo Horus in braccio hanno fatto da modello alle immagini di Maria che tutti conosciamo. Anche altri attributi, come le dodici stelle e il colore azzurro (la statuetta della madonna che mettiamo nel presepio ha sempre un mantello celeste), e alcuni epiteti, fra cui “regina del cielo” e “stella del mare”, sono stati trasferiti alla Madonna.  Poi Iside e Horus sono stati demonizzati, per tutto ringraziamento.

Nelle religioni orientali equinozi e solstizi sono i giorni più favorevoli alle attività spirituali. In India la grande festa solstiziale è il Diwali che, come il nostro Natale, è la festa del ritorno della luce sulla terra – nel mito il ritorno di Rama dall’esilio. Il Diwali però si celebra in novembre. Le date delle festività indiane sono tutte sfasate rispetto al calendario astronomico a causa della precessione degli equinozi. Anche il nostro calendario ha delle sfasature: santa Lucia, che secondo il proverbio è “il giorno più corto che ci sia”, cade il 13 dicembre, mentre il solstizio cade il 21. Più antica è la festa, più è anticipata rispetto all’evento astronomico a cui dovrebbe corrispondere.

Mitra

Il natale del sole era anche il natale di Mitra. Il culto di Mitra, forse di origine persiana, era stato portato a Roma dai legionari, ed era un culto esclusivamente maschile e di carattere militare. Mitra era una divinità solare, che secondo il mito era nata in una profonda caverna, dalla roccia stessa. Mitra era riuscito a domare, a trascinare nella caverna e a uccidere un grosso e pericoloso toro. Molti personaggi simbolici, fra cui due portatori di torce – una alzata e l’altra abbassata – affollavano la grotta di Mitra, che probabilmente aveva un significato astronomico. Anche tra i personaggi del presepe troviamo un vecchio con una lanterna in mano, è uno dei personaggi fissi, come la lavandaia (che in realtà è una levatrice) e il pescatore. Questi, e molti altri personaggi, hanno un significato simbolico ormai codificato e ci dovrebbero essere in ogni presepio che si rispetti.

Il nostro presepe può essere ambientato in una capanna, che somiglia alla nicchia dei Lari, oppure in una grotta, che ci ricorda il viaggio sotterraneo del sole e il culto di Mitra.

Il culto di Mitra prevedeva il sacrificio di un toro, e forse proprio a causa di questo dettaglio truculento, e perché il culto era riservato ai maschi, il mitraismo non vinse la gara di appalti per diventare la nuova religione ufficiale dell’impero. Come sappiamo, la gara fu vinta dai cristiani. Quel gran politico di Costantino aveva capito che un gruppo bene organizzato, disciplinato, motivato e compatto, poteva rimettere in piedi l’amministrazione imperiale. E così fu. La chiesa divenne prima instrumentum regni e poi centro di potere. Alla fine sostituì l’impero, divenne ricca e corrotta e rimase tale molto oltre il 1200, nonostante le prediche di san Francesco.

Dopo che ebbero assunto il potere nell’impero romano, i cristiani distrussero templi, opere d’arte e biblioteche, e gradualmente trasformarono le feste tradizionali in feste cristiane, mantenendone i riti e le date, ma cambiando i nomi ed i significati religiosi. Sovrapposero la nascita di Gesù a quella del sole, san Valentino e la Candelora ai Lupercalia, la Pasqua al ritorno di Persefone.

Il culto dei morti

Nel periodo più freddo e difficile dell’anno, il periodo in cui le attività agricole si fermavano e le giornate si accorciavano come se la luce del sole dovesse sparire per sempre, si pensava che gli spiriti dei morti tornassero sulla terra per comunicare con i vivi, perciò venivano lasciate offerte per sfamarli, e in cambio i defunti portavano regali che simbolicamente garantivano la continuità della vita e l’unità della famiglia al di qua e al di là della soglia della morte. La festa della commemorazione dei defunti si è spostata da dicembre a novembre; a Natale i regali vengono portati da santi e befane, nel giorno dei morti invece i bambini ricevono doni dai defunti. E’ una tradizione che si è conservata in Sicilia, dove i morti portano i famosi fruttini di pasta di mandorle. I frutti della terra sono un dono della terra, e di quello che sta sottoterra.

Nelle tombe etrusche ed egiziane si trovano molti affreschi che raffigurano le attività quotidiane dei vivi: il lavoro dei campi, la caccia e la pesca, e poi musica e danza e tutto ciò che il defunto faceva e vedeva fare da vivo. Secondo una leggenda le pitture parietali delle tombe egizie erano magiche e al buio si animavano, così il defunto poteva, con gli occhi del suo doppio psichico, rivivere le scene della vita terrestre in una specie di cartone animato. Questo avrebbe reso meno brusco e doloroso il distacco dalla vita terrena e aiutato il defunto ad allontanarsene gradualmente. In una tomba predinastica presso Al-Amra sono state trovate delle statuette lunghe circa 8 centimetri, che raffigurano vacche, e in alcune tombe del regno antico c’erano deliziose statuette di panettieri al lavoro e graziose fanciulle con cesti di pane sulla testa. Sembrano proprio statuette da presepio! In tutte le sepolture egiziane, a qualsiasi ceto appartenesse il defunto, si trovano gli ushabti, statuette magiche il cui compito era presentarsi come testimoni davanti alla dea Maat, la verità-giustizia, che pesava il cuore del defunto e decideva se sarebbe stato punito o premiato. Un altro compito degli ushabti era lavorare per il defunto, in modo che nell’al di là potesse prendersela comoda. Evidentemente nell’antichità non c’era l’idea del “riposo eterno” (riposare in eterno? Che noia!) e tutti rimanevano attivi anche da morti.

In molte culture antiche modellini di case, oggetti di uso comune, armi, animali, immagini di divinità protettrici e statuette di persone che lavorano, suonano e danzano, venivano seppelliti con il defunto oppure venivano sistemati intorno alle tombe. Per esempio in Giappone delle statue di terracotta, chiamate haniwa, circondavano le sepolture dell’epoca Kofun (III-VI secolo dC), per non parlare della città sotterranea e del famosissimo esercito di terracotta del primo imperatore cinese.

Il modellino di un paese pieno di personaggi impegnati nelle loro attività nasce dunque da un’antichissima usanza funeraria. Non è tanto strano: la notte del solstizio è il momento in cui il sole rimane più a lungo nel regno dei morti, il momento in cui sembra che la morte debba ingoiare la vita. E invece no, il sole spunta fuori dalle tenebre ancora una volta, più vivo e vincitore che mai. Mi sembra naturale, e anche bello, che il sole bambino risplenda nel paese dei morti. Non è anche il mondo in cui viviamo, a guardar bene, un paese di morti? Corriamo di qua e di là ma non sappiamo chi siamo, cosa facciamo e perché lo facciamo. Rintronati e inconsapevoli di noi stessi, del sole e della luna e dei cicli della natura, siamo come degli zombie. Meno male che una volta l’anno ci fermiamo un po’ a guardare il presepio. Anche se non ne capiamo la portata simbolica, ci fa bene. Se la capissimo, naturalmente, ci farebbe bene il doppio.

La casa delle bambole

Oltre ad essere una tradizione funeraria, il modellino è un giocattolo. Tutti da piccoli abbiamo giocato con versioni miniaturizzate di animali, automobili, aerei, mobili, elettrodomestici, case e anche persone. Le bambole in fondo sono modellini di persone, la casa delle bambole è la delizia delle bambine e dei collezionisti appassionati, insieme agli aeroplanini, alle automobiline, alle navi nella bottiglia, agli animaletti e ai palazzi famosi. Minitalia è sempre piena di turisti. A chi non piacciono quei modellini di paesaggi collinari con paesino e personaggi, stazioncina, passaggino a livellino 😉 e gallerietta da cui spunta glorioso e trionfante il trenino? Forse il modellino ci fa ritornare bambini, ci riporta al mondo come ci appariva da piccoli: nuovo, fresco, limpido e interessante, pieno di segreti da scoprire, pieno di possibilità …Vedo una lucina che lampeggia … eh sì, si è accesa la spia dell’archetipo. Bisogna che mandi una mail al mio amico C.G. Jung per sentire che ne pensa.

La casa cosmica

Torniamo al presepio, che fa tanto parte di noi da farci dire, quando vediamo da lontano e dall’alto le luci di un centro abitato sfavillare nel buio: “Che bello, sembra un presepio!” Più il presepio è  ricco di dettagli, più piace. Grandi e piccini si soffermano deliziati a sbirciare nelle finestre delle case del presepe a guardare chi dorme, chi cena e chi cucina; ammiriamo le bancarelle in miniatura con tutte le loro merci, i rappresentanti dei mestieri tradizionali (non ho ancora visto un agente immobiliare, un programmatore o uno human resources manager nel presepio, ma nei presepi napoletani si possono trovare calciatori e personaggi dello spettacolo) con i loro attrezzi, gli animali e le piante. Se fra le casette del borgo individuiamo scorci prospettici e aperture su paesaggi retrostanti, andiamo in visibilio. A volte sullo sfondo c’è il mare; se il presepio è animato passano navi, cambia la luce della scena dal giorno alla notte, può anche piovere e poi tornare il sereno, e ogni notte passa la cometa, come se quella notte magica dovesse durare giorni e notti, in eterno.

Gli elementi che ci affascinano di più sono le fontane, il fiume e il laghetto (vero o simboleggiato da uno specchio) con le obbligatorie, rilassanti paperelle. Se c’è un fiume ci deve essere un ponte. Ci attirano anche i fuochi da campo, simulati con le apposite lampadine rosse intermittenti. Se dai fuochi e dai comignoli si leva un filo di fumo, la scena è perfetta. Tutti gli elementi sono rappresentati: acqua, fuoco, aria (fumo, cielo stellato, cometa) e terra (la grotta, il paesaggio), la composizione è in equilibrio e ci trasmette un senso di armonia. Nei presepi napoletani, al di là del fiume ci possono essere delle strane statuine circondate da fiamme, sono le anime del purgatorio. Il presepio è un’immagine sintetica del nostro mondo, anzi, più in profondità, dei nostri tre mondi: il cielo (angeli, stelle, cometa), la terra (paesaggio, attività umane) e l’oltretomba (la grotta, il mondo al di là del fiume). Nella notte magica del solstizio i tre mondi comunicano tra loro più intensamente del solito: gli angeli scendono dal cielo, appare una cometa, le tenebre si aprono per lasciare uscire il sole e i morti ritornano sulla terra. In alcuni vangeli apocrifi sull’infanzia di Gesù si racconta che il tempo si fermò e tutto rimase immobile mentre Giuseppe correva a cercare una levatrice. Giuseppe si accorse che cielo e terra si toccavano.

Ci sono momenti magici, momenti fuori del tempo, in cui tutto comunica con tutto e l’universo acquista un senso, diventa una casa, la nostra casa cosmica. Peccato che, presi dalle nostre sciocchezze urgenti, non ce ne accorgiamo. Il presepio rappresenta uno di questi momenti di comunicazione profonda, che ci lasciamo sempre scappare in qualsiasi momento avvengano. Anche domani mattina alle 5.25, oppure dopodomani sera alle 23.15 potrebbe esserci un solstizio nella nostra personale caverna tenebrosa, piena di irrequieti mostriciattoli. E allora occhi aperti, fosse questa la volta buona!

😉 Cira

Alcune delle fonti:

www.opresebbio.com ; http://www.vitadamamma.com/7273/santa-lucia-porta-i-doni-ai-bambini-e-porta-la-luce-festa-della-luce.html

http://it.wikipedia.org/wiki/Commemorazione_dei_defunti  http://www.cumpagniadiventemigliusi.it/Tradizioni_Intemelie/Usanze/Solstizio.htm

http://www.cumpagniadiventemigliusi.it/Voce_tradizioni/Sigilla_presepe.htm; http://astronavepegasus.forumattivo.com/t5310-quando-il-tempo-si-fermo-a-bet-lehem

http://it.wikipedia.org/wiki/Vangeli_apocrifi#Vangeli_dell.27infanzia  http://en.wikipedia.org/wiki/New_Testament_apocrypha http://maefood.blogspot.com/2008/07/ancient-egyptian-kitchen-toronto-museum.html http://www.touregypt.net/featurestories/bread.htm

http://aglobalworld.com/holidays-around-the-world/bhutan-descent-buddha/

http://cms.boloji.com/index.cfm?md=Content&sd=Articles&ArticleID=8002; http://en.wikipedia.org/wiki/Mithraic_mysteries; http://www.bbc.co.uk/religion/religions/christianity/history/virginmary_1.shtml

http://newhistories.group.shef.ac.uk/christmas-through-the-ages-celebrations-from-saturnalia-to-the-second-world-war/

YHDEN NAISEN MINIVALLANKUMOUS ITALIAN TUNNEILLA

I wrote this article last spring (2010) for a feminist magazine; they told me it was interesting but asked me to shorten it. I shortened it until they said it was OK . Eventually they  published it, after removing the last sentence and a few verbs here and there.

Italian opiskeluun liittyy unelmia, sukupuoliroolistereotypioita, tilkkaa rasismia sekä hassunkurisia väärinkäsityksiä

 Jos minulta kysyy, sanan merkitys riippuu asiayhteydestä, ja yhden totuuden pikkusanakirjoista on enemmän haittaa kuin hyötyä. Sama pätee virallisten oppikirjojen suhteen, joista vuosi vuodelta löytyvät samat vanhanaikaiset ilmaisut, samat tyylilajivirheet, bensaa ahmivat Ferrarit, miehille nalkuttavat kotiäidit ja harmaantuneet viiksiniekät, jotka luulevat olevansa hurmureita – sekä ranskan opinnoista tarttuneet tiukat kielioppisäännöt. Mutta Italian kansallisvaltio ja kieli ovat muodostuneet vuosisatoja Ranskan jälkeen. Standardikieltä ei kodifioitu yhtä selkeästi kuin ranskaa, eikä normatiivinen peruskoulukielioppi kuvaa kielenkäytön todellisuutta.

Saapasmaassa asiat ovat huonosti: maa on jaettu, demokratia kuihtuu, tehottomuus ja korruptio leimaavat viranomaisten toimintaa, ympäristökysymyksiä vähätellään ja kulttuuria sekä terveydenhuoltoa ajetaan nopeasti alas – ehkei niin nopeasti kuin tehokkaammassa Suomessa.

Kaikesta huolimatta Italiaa markkinoidaan edelleen unelmamaana ja -kielenä. Turisteille myydään joko yksinkertaistettua glamour-Italiaa tai yksinkertaistettua takapajula-Italiaa katolilaisine taikauskoineen. Glamourin pääkaupunki on Milano ja jossakin etelässä huivipäiset naiset suutelevat pyhimypatsaiden jalkoja pohjoismaisten antropologien iloksi.

Vaikka italian opiskelu on Suomessa pelkkä ajanviete, yritän suorittaa tehtäväni kunnialla ja samalla lisätä pakettiin sellaisia seikkoja, jotka tekisivät ajanvietteestä rikastuttavan kokemuksen. En jaksaisi petkuttaa aikuisopiskelijoitani yhden totuuden opeilla enkä levittää halpoja kliseitä, siksi olen kehittänyt kotikonsteilla, ystävien ja sukulaisten avulla, omaa opetusmaterialiaa, joka rikkoo kaikkia unelmamyyntibisneksen sääntöjä. Sitä ei tietenkään kukaan halua julkaista. Onneksi. Kustantaja käskisi selkeyttää teosta ranskan opettajan neuvojen mukaan ja siivota pois kaikki poliittisesti epäkorrektit kulttuurinmuruset.  Nyt Pane al Pane on netissä, villina ja vapaana.

Aktiivisimmat oppilaani ovat osallistuneet alusta asti ideoillaan ja kysymyksillään tekstin luomiseen. He korjaavat kielivirheitäni ja ehdottavat silloin tällöin parannuksia grafiikkaan tai sanastoon. Minua kyllä hävettää, että tarvitsen apua tekstieni kieliasun hiomisessa. Suomessa yksin selviäminen on sosiaalinen normi, jota en pysty ikinä noudattamaan. Pystyykö kukaan, ihan oikeasti? Toisaalta, jos opettaja on luuseri, niin opiskelijoidenkaan ei tarvitse olla täydellisiä. Tunneillamme saa mielellään erehtyä, mokata ja nukahtaa.

Kieliopin opetuksessa yritän olla pudottamatta ihmisten niskaan lopullisia totuuksia, koska niitä ei ole. Kieli on elävä olento. Tarkkailemalla sitä voi löytää säännöllisyyksiä pikemminkin kuin sääntöjä. Opiskelijiat saavat itse päätellä pienryhmissä, mitä säännöllisyyksiä löytyy. Pienryhmätyöskentelyn sivuvaikutuksena he huomaavat toivottavasti, ettei tieto ole niukka resurssi eikä siitä tarvitse kilpailla. Päivastoin, jakamalla sitä saa enemmän. Joskus saa myös uusia ystäviä.

Kun adjektiivi taipuu, ainoa ero feminiinin ja maskuliinin välillä on viimeinen vokaali. Muinoin on sovittu, että o-päätteinen maskuliini on perusmuoto ja a-päätteinen feminiini muodostetaan maskuliinista. Minä laitan feminiinin aina ennen maskuliinia, aakkosellisesti. Se on provokaatio, mutta onneksi kukaan ei ole suuttunut. Voi itse valita, miten asiat haluaa mieltää. Kaikki tulkinnat ovat vain tulkintoja, myös nuo vanhat, jotka vieläkin kelpaavat totuutena.

Vastarintaoppikirjani päähenkilöt ovat ahkera mutta köyhä yksinhuoltajaäiti ja kasvukipuinen tytär, joka yrittää ymmärtää itseään, mailmaa ja suhdettaan neuroottiseen isäänsä. Äitiä ja tytärtä ovat  tukemassa isovanhemmat ja koko suku. Suvussa ei ole kotirouvia,  kuten ei ole matriarkaalisessa klaanissanikaan.  Tuttavapiiriin kuuluvat mm. lesbopari, oopperafriikki-setä ja albanialainen lähihoitaja, joka ahdistuu työnantajan ennakkoluuloisesta asenteesta. Naiset ja miehet nalkuttavat toisilleen tasa-arvoisesti.

Äiti ja tytär asuvat lähiössä, pukeutuvat farkkuihin, kulkevat bussilla ja syövät kotona, jos jääkaapista löytyy ruokaa. Kulttuuri tulee esiin murusina, joissa kerrotaan pienistä ja suurista asioista, esimerkiksi ohrakahvista, byrokratiasta, Vatikaanin ylivallasta, pohjoisitalialaisen junttipuolueen puhtaan pojokilaakson rodun propagandasta yms. Naurattaa ajatella, että puhdasrotuiset pojoenlaaksolaiset olisivat helsinkiläisessä diskossa naisia paikallismachoilta vieviä ”mutakuonoja” ja saisivat mahdollisesti selkäänkin!

Omistin kokonaisen kappaleen ympäristökysymyksiin ja toisen Emergency-järjestöön, joka on italialainen Medicines sans frontieres -järjestön vastine. Idea syntyi, kun kursseilla käyvä sairaanhoitaja kertoi työstään Emergencyn parissa ja toi minulle materiaalia. Kerroin myös jalkapallosta, tai pikemminkin siihen liittyvästä väkivallasta ja epätoivoisista keinoista päästä eroon siitä.

Refleksiiviverbien selventämiseksi tarvitsin kuvaa, jossa A napittaa B:n takkia. Värväsin vanhan nukkeni lapsen rooliin (pientä lasta ei löytynyt) ja kuvasin äitini kädet, kun hän puki nukkea. Luulin olevani kekseliäs.
”Aina naisia hoivarooleissa! Sinulla on taka-ajatus, yrität vahvistaa perinteisiä sukupuolirooleja!” Ihmettelin pitkään silmät pyöreinä, mitä kiroileva kovisnainen oikein tarkoitti.

Feminismiä voi ymmärtää monella tavalla. Tasa-arvoa voi yrittää edistää lisäämällä naisten alkoholismia, ja kovis kurssillani haastoi perinteisiä sukupuolirooleja kiusaamalla kurssikavereita ja kiroilemalla italiaksi. Nyt hän oli tuonut esiin alitajunnassani piilevää patriarkalismia. Kiitos. Ilmeisesti tytön kehitysromaani ja kieliopin vallankumous eivät riitä. Kun käyn ensi kerralla Roomassa, laitan kuuliaisen enoni napittamaan nuken takkia uutta kuvaa varten.

Seuraavalla tunnilla näytin ”tasa-arvolautakunnan hyväksymän” powerpoint-esityksen. Siinä naislentäjä, naiskapteeni ja naissarjamurhaaja toteuttivat onnellisina unelmansa. Kovis nauroi yhtä makeasti kuin muutkin. Kurssin lopussa hän oli iloinen ja tyytyväinen, eikä enää kiroillut, Jumalattaren kiitos.

Jäin kuitenkin miettimään väärinkäsitystä. Ehkä kovis ei osannut mieltää pientä etelän naista feministiksi. Hän ei nähnyt minua vaan sen, mitä kuvitteli näkevänsä ennakkoluulojensa läpi. Minäkö kalpea, puoliksi pojokilaaksolainen rasismin kohteena?

Ns. etelässä naisviha ilmenee enemmän sukupuoliroolien korostumisena (missä lienevät sukupuoloroolien etelän pohjoisrajat? … Alaskassako?), pohjoisessa pikemminkin naiselliseksi miellettyjen pehmeiden arvojen karsimisena.

Naiskoviksen machoilu oli minusta arvojen koventumisen merkki, mieskeskeisyyttä suomalaisittain. Koviksen mielestä nukkekuvani ilmaisivat kuvottavaa pehmonaiseutta. Kumpikin luuli olevansa feministi ja oli sitä mieltä, että toinen edustaa patriarkaattia. Kuinka monella tavalla feministi voi edustaa patriarkaattia?

Tutkin gradussani etnisten stereotypioiden ja seksismin kietoutumista toisiinsa: sekä naiset että ns. etelän ihmiset leimataan tunteellisiksi ja arvaamattomiksi. Etelän ihmisten legendaarista huomaavaisuutta, yhteisöllisyytta ja sukulaisten solidaarisuutta joskus paheksutaan liittämälla ne mafiaan, joskus taas ihaillaan rakkauskykynä, joka pohjoismaalaisilta puuttuu. Kummassakin tapauksessa nämä ominaisuudet
esitetään kaukaisina ”meistä”. Päädyin oivallukseen, että ”etelän” stereotypiointi on keino ottaa etäisyyttä pehmeistä arvoista. Siinäkin piilee siis patriarkaalista kovuutta.

Kun ryöstöjen keisari voitti Italian vaaleissa, minua hävetti niin, että olin luopua italian opettamisesta: berlusconimielinen glamour-Italia on voittaja sekä siellä että täällä, ja minä olen ikuisesti yhden naisen vähemmistö…
Ainoa kurssilaiseni, joka keksi lohduttaa ja kannustaa minua jatkamaan työtäni, oli mies.

😉 Cira Almenti

1 Response to Articoli di Almendra – Almendra’s articles

  1. laura says:

    una lettura documentata ma non pedante, istruttiva, vivace come lo sguardo di un bambino…

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